ANTOLOGIA CRITICA > Raffaele De Grada

1986

Come le architetture sobrie, misurate, certamente fredde e compassate dei pittori novecentisti sono state sconvolte dal terremoto psicologico espressionista di Corrente, così gli ambienti misurati col metro della visione naturalista dei realisti degli anni Cinquanta sono stati agitati dalla ripresa, tra i più giovani, della tendenza a dissacrare il reale naturale, a coglierne il lato più problematico e insicuro.
In questo gruppo di inquieti il milanese Giancarlo Ossola, giunto alla soglia dei cinquant’anni, si rivela con questa nuova mostra alla Galleria Trentadue uno dei più stimolanti, dei meno accademici.
Il suo indubbio secentismo che può perfino ricordare lo stile del grande Magnasco, si compiace di feroci spatolate, di sommovimenti materici che danno l’impressione, in questi dipinti di “interni”, che si sia alzato un gran vento che ha forzato porte e finestre, ha sparso ogni dove le carte, ha rovesciato chicchere, ha frugato nei mobili provocando quella confusione che resta col silenzio nelle stanze dopo un delitto, un suicidio, un terremoto, un arresto improvviso. Poi, nel grande, mortale silenzio, la polvere si accumula e fissa in una non memoria i luoghi che furono già animati dalla vita, dalle azioni, dagli affetti.
Diciamo “non memoria” perché “le stanze” di Ossola non si fissano in quella metafisica lucida della memoria che è stata tipica, dopo “Valori plastici”, di un gran settore del Novecento. L’agitazione che sconvolge questi “interni” ossoliani, nonostante che i titoli ci richiamino spesso alla memoria, memoria non possono essere tanto tutto è provvisorio e in deperimento. Che differenza c’è tra una stanza d’abitazione e un solaio? Chi si ricorda della stanza di un solaio dove gli sia capitato di andare a frugare per cercare qualcosa?
In una perfezione non comune, non di quelle che non dicono niente, Elena Pontiggia si domanda che cosa ci sia dentro a questa idea di “deposito” che si leva dai quadri di Ossola, un’idea che classicamente diventa il mito dell’incancellabilità e romanticamente quella del transitorio.
Ossola – non c’è dubbio – appartiene alla grande categoria dei romantici; anzi a quella speciale categoria dei romantici “lombardi” che non si presta ai miti, che delle cose vede l’aspetto dimesso, non appariscente, perfino umiliato. Ci fa pensare a Conconi, alla tarda Scapigliatura, a quella pittura che può essere perfino finita in un ripostiglio tanto poco brillante essa era per gli eredi che l’hanno trovata. Le pennellate, che lasciano sempre spazio anche alle sciabolate della spatola, non sono quasi mai canore. Ossola permette al massimo di far cantare un giallo per poi rieducarlo subito con un chiaroscuro moderato che lo riassorbe nell’amato silenzio del colore.
Giancoarlo Ossola è uno di quei pittori che amano scrivere. Ha conosciuto poeti come Sereni, ha frequentato l’ambiente letterario lombardo. Un suo scritto in catalogo, impostato sull’analisi del “relitto” nella società contemporanea, ci aiuta a capire la sua pittura che non si apre alle cose che nascono, ma si ripiega sulle cose che muoiono.

(“Corriere della Sera”, 16 Aprile 1986)

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