[…] Le fonderie, i depositi, i cantieri dipinti da Ossola si presentano, in effetti, come “foreste di segni”da cui talvolta, prestando occhio e orecchio con grande attenzione, si possono sentire uscire “confuse parole”. Quei luoghi, interni di quel genere, hanno assunto una dimensione di naturalità più intensa rispetto a quanto convenzionalmente si definisce natura: una volta perduti, non si presentano più come luoghi artificiali, il cui “artificio” è, più o meno facilmente, ripercorribile, concettualmente smontabile e ricostruibile, dunque comprensibile, ma come luoghi terribilmente naturali, romanticamente naturali, dove il tutto non è più afferrabile e dove soltanto dettagli minimi – come i fili d’erba nei quadri di Friedrich – riescono a far intuire una complessità che non si riesce ad afferrare, nel suo insieme. E la cui non comprensione, tuttavia, produce piacere.
Si direbbe, d’altronde, che ciò che a Ossola interessa, di tali luoghi, sia principalmente l’ombra di quella che era stata la dimensione reale: un’ombra frammentata, vaga, allusiva, che funziona per inafferrabili illuminazioni suscitate da un dettaglio, un colore, l’odore del luogo che si riesce ancora a respirare attraverso la sua raffigurazione.
Nelle fabbriche di Ossola, che sono indubitabilmente sentite, ora, come dei luoghi di piacere (altrimenti non varrebbe la pena dipingerle), non può più lavorare nessuno: il che, per certi aspetti, colloca i suoi lavori su una lunghezza d’onda simile a quella di altri artisti contemporanei che si sono cimentati con un tema analogo.
Per esempio i tedeschi Hans e Hilla Becher che con un altro mezzo, la fotografia, hanno rappresentato, ma per lo più in vedute esterne, fabbriche, officine, pozzi minerari. Anche nei lavori di questi ultimi l’uomo non c’è e l’industria è sentita come esemplare di una fine o di una mancanza, ma anche – e non sottovalutiamo questo aspetto – di un desiderio.
L’attenzione dei Becher alle geometrie strutturali dell’architettura industriale suggeriva, tuttavia, una sorta di nostalgia per una forma di bellezza, originato da uno schema ordinato di linee, che in Ossola manca: o, quanto meno, gioca un ruolo secondario rispetto ai “segni” che entro tale schema sono iscritti. L’occhio di Ossola, in altri termini, è tutto spostato dall’esterno all’interno: non sono gli involucri che gli interessano, ma gli spazi interni, quello che le architetture, nel senso più ampio che al termine può essere dato, racchiudono e nascondo. In questi spazi Ossola viaggia, osserva e ricorda, prende appunti come un esploratore che si rispetti – scattando fotografie, o usando fotografie – e poi ricostruisce e rappresenta usando la memoria e l’immaginazione.
Un procedimento del genere fa di Ossola un pittore di paesaggio tipico di una tradizione dalle lunghe radici: alle sue spalle si possono intravvedere certi percorsi della figurazione cosiddetta esistenzialista, ma legati al meno ovvio côtè inglese, più che al francese penso alla scuola di Londra del secondo dopoguerra, al vecchio Bomberg, quindi ad Auerbach e a Kossoff. (…)
Un gruppo di dipinti svolge un altro tema tradizionale della pittura: quello dello studio dell’artista: il loro senso, al di là della puramente accidentale differenza delle “cose” rappresentate, non è però sostanzialmente diverso da quello degli interni industriali. Atelier con natura morta, Lo studio di sera, Atelier di scultura sono spazi accomunati a quelli industriali dal forte sentimento di piacere, o di desiderio, prodotto: indipendentemente dal fatto che in questi ultimi sia una “mancanza”, una sospensione a tempo indeterminato dall’attività, a determinare un’inversione di segno nello loro percezione.
Il piacere puro della sensazione continua a essere il principio che governa gli altri quadri di interni in cui Ossola mette in scena scorci del proprio domicilio” o spazi con maggiori margini di ambiguità quanto alla loro riconoscibilità, al di là del fatto che ciascuno di essi rappresenti un luogo preciso.(…)
Antonello Negri
(1994, prefazione alla mostra personale “Dipinti 1990-1994”, galleria Appiani Arte 32, Milano settembre 1994)