ANTOLOGIA CRITICA > Alberto Pellegatta

2016

Scrivo queste pagine con gli occhi lucidi, detestando ogni imperfetto, perché un grande maestro della pittura e un caro amico ci ha lasciati. Un pittore colto che ha attraversato da protagonista il secondo Novecento, amico di Vittorio Sereni e presentato, oltre che dai maggiori critici italiani (da Tassi a Arcangeli, da De Micheli a Giovanni Testori ecc.), anche da Giovanni Raboni. Mi manca, e sento che neppure questa mancanza mi appartiene, più di quanto non appartenga a tutti coloro che, appassionati d’arte, sono consapevoli dell’importante eredità culturale che Giancarlo Ossola ci ha lasciato – e che Cristina Sissa è riuscita a concentrare in questa mostra monumentale, nei rinnovati spazi del Museo della Permanente, che lo vide consigliere artistico dal 1987 al 1993. La rassegna offre giustizia al valore di questo importante artista appartato con una prima ricognizione antologica, mostrando il debito che intere generazioni di pittori hanno verso di lui, oggi che i suoi temi e il suo inconfondibile stile sono diventati strumenti ampiamente utilizzati. Un discorso a sé meriterebbe la verve del pittore: una statura morale che ha contribuito, nell’indifferenza generale, a mantenere in piedi, in decenni di penoso appiattimento, l’architrave dell’intelligenza.
Ossola non cercava il consenso, lavorava nel silenzio di via Pastrengo a Milano, di notte, alla luce dei neon, applicava per prime le categorie prospettiche, creando la sintassi dell’opera, per poi dissolvere nel gesto riscaldato l’intenzione. La sua è stata una ricerca costante sulle possibilità del mezzo pittorico, e non come squisito esercizio di stile, ma come indagine sui significati intravisti dietro le cose, sui sentimenti appena percepibili: gli oggetti e i paesaggi compongono la scena, ma è lo sguardo ciò che il pittore ci propone, non le cose. È un mondo sommerso che, disceso nelle profondità della mente, riaffiora rifatto: una luna sconsacrata illumina «gli strumenti umani» che conservano l’impronta di chi se ne è già andato; i pavimenti sprofondano in altre storie, in paesaggi sognati tra corpuscoli di luce lampeggianti; i panorami che si allargano improvvisi sulle pareti, come muffe e macchie enigmatiche, contengono fascinazioni fiabesche; i laboratori, le fabbriche, le officine non sono le tristi retoriche dell’abbandono, dell’archeologia, ma si riaccendono di colori che farebbero la gioia dei bambini.
Nei lavori più recenti Ossola ci depista, nascondendo dietro alla quiescenza il delirio che disorienta, il thriller, descrivendo l’ansia e l’opacità contemporanea con grande efficacia. Se negli anni settanta al centro della scena c’era una fascia organica, un grumo semantico, con la deflagrazione di quel nucleo, gli oggetti (non a caso definiti intermedi) incominciarono a vagare nel vuoto, proiettati a cono da una forza centrifuga – gli anni delle Memorie epiche e della riscoperta degli interni. Non può sfuggire l’incontro dell’artista con le incisioni di Seghers, con quei paesaggi fatti di misteriosa materia cerebrale, pieni di rami contorti stratificati su incongrue tracce di vele marine. La memoria si deposita su un fondo e davanti, in primo piano, si staglia la figura antropomorfa dell’attualità che ricorda. La vita riemerge dall’indistinto e le molecole viaggiano nello spazio e lo configurano. La deflagrazione crea un primo passo verso la prospettiva. Quando gli oggetti troveranno il loro posto, definendo e rifondando chiaramente le stanze, gli interni, le piazze, allora saremo nell’ultima fase, quella forse più nota della sua produzione. La geografia è chiara, negli scritti del pittore: «Queste “periferie della civiltà” sono terreno riservato all’arte, alla poesia, all’immaginazione, all’evocazione… sono serbatoi di una realtà declassata e di un’umanità latente. Gli spazi marginali si sottraggono al controllo umano. Luoghi dove l’uomo ha cessato di operare, involucri d’industrie, terre di nessuno, fasce intermedie, angoli inutilizzabili». Infatti, «più la luce impaziente e snaturante del dominio umano occupa e scruta, più provoca ombre fitte, profonde e misteriose. La natura benefica tende a ristabilire l’equilibrio turbato. Gusci di opifici saccheggiati, parti disabitate di città, depositi di relitti covano, in lente fasi successive, un capovolgimento di significati: da teatro di alienazione esistenziale a terra di coltivazione poetica. Il reperto, sfasciandosi lentamente, riacquista la sua natura di materia prima. Il ciclo, dopo adeguata riflessione, può variamente ricominciare».
Ma lasciamo che sia l’artista stesso a descrivere la propria traiettoria: «la mia pittura nasce negli anni Cinquanta, in presa diretta sulla realtà: ritratti e figure, nature morte, paesaggi dipinti nei paesi d’origine della mia famiglia, nel Varesotto. Stabilitasi successivamente a Milano (dove sono nato), la mia pittura ha proseguito a crescere fra le pareti di uno studio in Porta Garibaldi. Lì si va precisando un segno riconoscibile e autonomo. Attraverso varie esperienze, alla fine degli anni Sessanta la mia pittura subisce una specie di svuotamento e di accelerazione, fino a creare una “tabula rasa” sulla quale, all’inizio del 1970, lascio depositare segni e materia in strutture elementari, sequenze e ritmi rapidi, sommari. Procedo istintivamente, quasi in automatico, con fiducia nel subconscio e nella memoria. Nascono l’idea e il sentimento del frammento come forma-sostanza dell’attualità, in fondo così tipico della pittura contemporanea.
Nel procedere del lavoro, l’immagine si addensa e le tematiche, negli anni Settanta, si moltiplicano. Risulta evidente, oltre che dai quadri, anche dai titoli: all’inizio Narrazione frammentaria, Ricordi sovrapposti, Intervento sulla città, Percezione rapida di oggetti, Oggetti intermedi, Irruzione, Vertigine, Vuoto esterno; in seguito, con opere presenti anche nella mostra allestita qui in città, Immagine primordiale, Memoria epica, Evocazione, Metamorfosi, Immagine anteriore, Città, Testa-città, Testa-paesaggio, Interno con oggetti, Sul territorio. Fino alla configurazione dei due principali temi sui quali, con crescente e graduale precisazione di luogo e oggetti, lavoro ancora oggi: le città e gli interni. Interni che, dopo la fine degli anni Settanta, sono riferiti a luoghi reali, fabbriche, margini della città, interni dismessi o in trasformazione con i loro misteriosi, indecifrabili labirinti. Metafore di una condizione interiore». L’opera di Ossola è rivolta, come prescrive Klee, al mistero, «a conoscere qualcosa dalla radice, s’impara la preistoria del visibile. Ma non è ancora questa l’arte al livello supremo. Al livello supremo incomincia il misterioso (…) Il Castello di Kafka, La zona di Tarkovskij in Stalker, la prigionia metafisica dei segregati nell’Angelo sterminatore, la Classe morta di Kantor: quattro forti metafore, diversamente stimolanti e pregnanti, del mistero dell’esistere. Frutti di un’arte e di una cultura sentita, meditata e profonda, viva nel tempo e nella memoria, offrono altrettanti spunti per l’affiorare di immagini, di segni da individuare, in fecondo rapporto con la realtà visibile, per l’ambiziosa composizione di un quadro totale». Perché, in fondo, «l’arte non svela misteri, immette piuttosto, per così dire, sulla pista del mistero, attraverso lo sguardo; evidenzia risvolti enigmatici nella materia, orienta verso l’interno, verso ciò che sta dietro le apparenze. Resta praticabile un territorio nascosto, una zona celata alla coscienza». La riflessione sul linguaggio specifico della pittura è per Ossola una questione fondante legata agli impulsi: «L’esigenza di liberazione e di ricarica del segno pittorico, si collega allora a una ricerca delle origini prime dell’immagine nel profondo, nel mondo interno delle pulsioni primarie, nel loro scatenamento, simboleggiato dal gesto e dal caos della materia. Le risorse della natura interna e l’esigenza di ritrovare la propria animalità conferiscono alla pittura nuovo vigore e una diversa autenticità, dispiegando una ricchezza di esperienze che si traduce in segni inaspettati. Questi nuovi segni entreranno stabilmente nel linguaggio della pittura moderna». «Curiosità e stupore» costituiscono i «motori dell’immagine», che si organizza come una «foresta dei segni» su «un tessuto ora più lento e meditato». Per Ossola il braccio diventa un «sismografo dell’inconscio»: «La mia pittura non è mai stata completamente informale o astratta: dentro c’è sempre l’oggetto, cioè una partenza reale. Nelle loro frequenti discussioni sul figurativo e l’astratto, Braque e Picasso, alla fine, si trovavano sempre d’accordo su un punto: che la pittura, senza una base offerta dal mondo visibile, sarebbe più facilmente destinata a diventare pura decorazione. Per questo i pittori antichi conoscevano l’importanza della guida e dell’insegnamento della natura. Gli spazi chiusi degli interni sono come bozzoli che l’uomo si costruisce per abitare, e sono animati dalla sua presenza psichica. Questa si trasmette e impregna, per così dire, strutture e oggetti che rispondono all’immaginazione con echi e rimandi misteriosi. Negli esterni la pittura si fa più stesa, più libera. Lo spazio, che nella parte alta diventa cielo, non ha limiti». Un’altra specificità del suo lavoro, anticipatore di linguaggi e tematiche poi riprese da artisti più giovani che ancora oggi avvertono l’attualità della sua proposta, sta anche nell’apparato teoretico di saggi e articoli che fanno di lui un personaggio unico, attivo come curatore di mostre che hanno animato l’«età dell’oro» della cultura milanese, negli anni Sessanta e Settanta.
Molto prima dell’uomo liquido e degli scarti di Bauman, Ossola scriveva: «La vera grandezza della nostra epoca consiste nella creazione del rifiuto, inteso come scoria, immondizia, relitto. Non per le nostre produzioni saremo ricordati dai futuri millenni, ma per avere reso il pianetaun gigantesco rottame. La nostra grandezza sta nella stratificazione epica dei rifiuti. Ad alcuni artisti è già balenato questo dubbio, essi hanno raccolto esemplari e prototipi di rimasugli della vita e dell’industria, relitti allo stato puro o compressi e impacchettati, fotografati, appesi. Ma troppo timidamente». Si intravede così una lettura meno romantica di quella che diede Testori: «Quello della scoria, dell’immondizia in grande stile è uno spettacolo forte, adatto a temprare l’uomo, alienato e indebolito nello spirito dalle soffici, addormentanti e asettiche comodità della vita moderna… In fondo, rifiutando il rifiuto, l’uomo d’oggi dimostra di non avere coscienza della propria forza, della propria capacità apocalittica».
In occasione di una mostra per i settant’anni dell’artista ho intervistato Giancarlo Ossola, raccogliendo una testimonianza importante che vi propongo. Alla domanda su come fosse cambiato lo stato dell’arte a oltre trent’anni dal suo esordio, aveva risposto frontalmente: «Le cose sono peggiorate, la quantità ha decisamente prevaricato sulla qualità. C’è un problema di identità specifiche: i critici si sono sostituiti ai pittori. Comunque non sarà certo un’epoca debole come la nostra a cancellare secoli di storia dell’umanità per immagini. Oggi siamo costretti a registrare una crisi, si può solo immaginare che i tempi di recupero saranno piuttosto lunghi. I pittori ci sono ma sono messi nelle condizioni peggiori per lavorare. Ora tutti, scrittori e artisti, sono sulla stessa barca. Gli occhi devono vedere direttamente la pittura, e i giovani non possono pensare di studiare su delle foto, la riproduzione grafica non è in grado di riconoscere neppure i colori. Una buona critica, competente e di alto profilo, migliorerebbe senza dubbio il mercato e la qualità del pubblico. Il mercato però spinge nella direzione pubblicitaria». Un discorso sulla fotografia gli aveva offerto invece l’occasione per un chiarimento epistemologico: «Per vent’anni ho dipinto senza foto, senza neanche guardare, a occhi chiusi, creavo degli impianti spaziali per dare la prospettiva e solo più tardi mi sono accorto che si era strutturato uno spazio tutto mio, spesso circolare. Quando il colore di fondo era ricettivo inserivo degli oggetti “automatici”, che stavano dentro e fuori la scena. La mia personale metamorfosi mi ha poi portato all’uso della fotografia. I pittori si dividono tra chi ha usato la fotografia come studio, per esempio Bacon con Muybridge, e chi non lo ha mai fatto. Poi c’è anche chi l’ha praticata, come Balla, Wols, Munch, Kirchner e Delacroix. L’uso della fotografia sostituisce lo studio dal vero del pittore, anche se i primi telai quadrettati sono già del Cinquecento, e Canaletto usava una camera oscura primordiale. Seguo il lavoro di alcuni fotografi, come Mimmo Jodice, ma anche fotografie scattate dai pittori, come quelle di Wols. In ogni caso sono io che scelgo e taglio, che centro un particolare o metto a fuoco un’immagine. L’utilizzo della fotografia non implica l’ibrido, la libertà è diventata licenza. La fotografia mi ha permesso di completare interi cicli sui luoghi, come per Villa Arconti o le fabbriche abbandonate che fotografiamo con un amico scavalcando le recinzioni. Purtroppo anche la stampa non è più la stessa, certa carta e certe macchine non vengono neanche più prodotte. C’è un impoverimento dell’immagine, e l’ipertrofia tecnica certo non aiuta. I nuovi macchinari di stampa vengono cambiati ancora prima che qualcuno sappia usarli». Infine, al sospetto che esistano, nella sua opera, due categorie di quadri, quelli misurati che solo nel particolare sprofondano nel regno dell’inconscio, e quelli più istintivi e violenti, il diretto interessato chiarisce che «non ci sono due canoni, è la stessa opera, per ogni quadro disegno prima le geometrie e le architetture sullo sfondo, prendo le misure per riscaldarmi. Poi qualcosa si muove, dopo la calma assopita mi viene fretta. Ciò che mi interessa è riuscire a andare in profondità col gesto, per pescare in un serbatoio misterioso. In questo Tiziano Vecchio è decisamente gigantesco.
L’altra parte – proprio come quella di Kubin – completa le misure, è parte del congiunto».

(Palazzo della Permanente, Milano, 4 – 22 ottobre 2016, Prefazione al catalogo)

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