ANTOLOGIA CRITICA > Gian Alberto Dell’Acqua

1989

[…] Si svolgeva così davanti a me il ciclo [di Villa Arconati] in tutta la sua ampiezza, dagli interni della villa – i saloni e le camere da letto, la galleria, le cucine – alle vedute del giardino e del parco alla francese adorno di fontane e di statue barocche. Appariva subito chiara la forte suggestione esercitata sull’artista da ambienti e arredi evocanti sontuose consuetudini di vita ma ora decaduti e vuoti di umane presenze. Ancora una volta, dunque, egli era stato attratto dal fascino di cose e luoghi abbandonati, ora però carichi di richiami storici e culturali. Senza alcun compiacimento letterario di tono decadentistico ma in termini strettamente e severamente pittorici, Ossola aveva toccato motivi cui erano stati sensibili in passato scrittori come il D’Annunzio del “Forse che sì forse che no”, nelle pagine rievocanti gli interni fatiscenti dell’immensa reggia mantovana, e più recentemente registi del rango di Luchino Visconti, in “Senso” e nel “Gattopardo”. Altri esempi però, lontani o prossimi nel tempo, sembrano aver confortato Ossola nella sua impresa; e tra essi può annoverarsi quello di un autentico poeta del cinema, Andrej Tarkovskij, al quale egli ha voluto rendere con un suo quadro del 1988 esplicito omaggio.
Sulla villa Arconati e sulla natura “colta” che la circonda Ossola, come già si è detto, ha lavorato a “caldo”, anche se non esclusivamente, per circa tre anni; e nel suo approccio non ha trascurato di servirsi, come già in precedenti occasioni, della fotografia, pur consapevole del netto distacco fra la sfera espressiva della pittura e quella di un mezzo che, per quanto personalmente usato, resta nella sua essenza”documento del reale… traccia meccanica delle apparenze”. A parte tale sussidio, egli si è valso con sicura perizia delle ben collaudate tecniche tradizionali, dalle nervose annotazioni dei disegni alle tempere su carta, di pronta esecuzione e di materia magra e trasparente, infine agli olii di vario taglio e formato, conseguendo in questi gli esiti più significativi e alti del suo lavoro.
Nel considerare la successione cronologica delle opere, facilmente si avverte come quelle eseguite nel 1987 propongano gran parte dei motivi ripresi e variati nell’anno seguente (entro il quale si raggruppano quasi tutte le tempere, intese rispetto alle tele a olio quali versioni complementari e in larga misura autonome) e più tardi ancora, fino alle ultimissime prove. In effetti compaiono già nei primi quadri i vasti ambienti, talora aperti in misteriose fughe di spazi su altri vani, o sdoppiati, secondo un procedimento già sperimentato in precedenza, da un elemento divisorio centrale.
Gli oggetti che li popolano – letti a baldacchino, poltrone, strane gabbie metalliche, quadri, sculture – ora si affacciano ben riconoscibili in primo piano ora si vedono riflessi in specchi che agendo da filtro li allontanano in una dimensione di ricordo più che di fisica presenza. “Lo Specchio” (s’intende lo specchio della memoria) è per l’appunto il titolo di un film famoso di Tarkovskij, tutto impostato su un magico gioco di rinvii tra passato e presente; riesce perciò ben comprensibile l’interesse del pittore per il grande regista russo, del quale il già citato “Omaggio” richiama movimenti poetici diversi: i presagi di una vicina apocalisse, i segni dell’abbandono e dello sfacelo.
Nel biennio ’88 – ’89 prosegue senza soste l’inventario pittorico della villa, visitata così in altri nobili ambienti – la stanza rossa, la gialla – come nel portico e nella galleria con i vecchi cannoni, nei rustici, nei ripostigli di attrezzi, nelle cucine. L’occhio del pittore si sofferma sugli ornamenti delle sovrapporte e dei camini scolpiti, su stipi, vetrine e scacchiere, antiche pitture e statue assunte sempre più frequentemente, a distanza ravvicinata, quali protagonisti del quadro. Tornano gli spazi moltiplicati e la magia degli specchi; significativamente vi allude il titolo di una tela dove, unica figura umana nell’intero complesso, compare da un lato il pittore medesimo con la fotocamera che gli cela il volto.
L’esplorazione si estende al parco; e qui, indugiando sulle attorte conformazioni barocche di statue e fontane Ossola trova modo di confermare la sua già nota preferenza per il Lissandrino. Il particolare genere dei soggetti, nel giardino e negli interni, avrebbe potuto anche richiamare ricordi di altri maestri settecenteschi cari al nostro artista, ad esempio Giandomenico Tiepolo o il Guardi; tuttavia proprio il Magnasco ha rappresentato ancora per lui, ovviamente in un ordine quanto mai libero di suggestioni e interpretazioni, un ideale punto di riferimento per il tocco spiritato e nervoso, la corposità della materia, il gioco guizzante delle luci.
Per quest’ultimo aspetto risulta evidente nel corso del lavoro di Ossola il passaggio dai bruni caldi delle “Officine” e dei primi quadri sul tema della villa a tonalità più fredde, con prevalenza di azzurri e di blu e frequenti schiarite di bianchi, di gialli pallidi, di ocre. Restano, a far da pedale alle mutate armonie cromatiche, i grigi di antico retaggio lombardo; e come nelle serie precedenti una essenziale funzione trasfiguratrice continua ad essere affidata alla luce.
Lo attestano, per alcuni dipinti, i titoli – “Luce – arredi”, “Luce – oggetti”, “Luce radente” – che per vero potrebbero addirsi a molti esemplari del ciclo. In realtà è la luce che, mentre sottrae al rischio di un eccessivo descrittivismo taluni dei dipinti di minor formato, nelle tele maggiori conferisce drammatica suggestione agli interni, fiottando sui pavimenti e irradiandosi sulle pareti a contrasto con l’ombra. Infine e soprattutto tocca alla luce salvare, ridestandoli dall’abbandono e dal sonno a una nuova forma di vita, gli spazi e le cose nel cui chiuso orizzonte Ossola si è tanto a lungo volontariamente confinato. In questo finale riscatto si deve, ci sembra, ravvisare il segno sicuro di un’autenticità pagata forse in passato con un relativo isolamento ma che oggi più che mai merita di essere riconosciuta nel suo pieno valore.

(Galleria Appiani Arte 32, Studio d’arte grafica, Milano, mostra itinerante, dall’ottobre 1989. Prefazione alla monografia “ossola – Villa Arconati”, Fabbri Editori)

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