ANTOLOGIA CRITICA > Marina De Stasio

1987

Giancarlo Ossola, critico d’arte oltre che pittore, ha teorizzato con grande lucidità l’esistenza di una realtà scartata, abbandonata, di uno spazio marginale, e per questo libero e autentico, come terreno possibile per il lavoro dell’artista: ha indicato questa come chiave di lettura per la propria opera, ma anche, in generale, come possibile spazio di ricerca e di verità per l’arte di oggi. Sono testimonianza di questa poetica i suoi dipinti degli ultimi anni, spazi urbani e interni di fabbriche abbandonate – indagati con i soli mezzi della pittura – dove, pur in un’atmosfera di solitudine e decadenza la presenza umana sembra lontana e forse impossibile, si assiste al faticoso ricostruirsi del ciclo naturale sui resti della tecnologia in disarmo, al ritorno all’organicità e all’unicità di quanto sembrava per sempre fissato, standardizzato, etichettato: si assiste insomma al ripristinarsi della drammatica verità della dialettica vita – morte. Molto è stato scritto a questo proposito, giustamente la critica ha sottolineato come siano la pittura, la materia e il segno, a riscattare questi spazi dal loro apparente squallore, a ridare dignità e valore alle gromme, alle polveri, ai rifiuti; come la saldezza dell’impianto architettonico ci dica comunque che i processi di trasformazione in corso non vanno nel senso di un ritorno al caos, ma nel senso di una nuova, sia pur sofferta, vitalità. Non è il caso di soffermarsi oltre su questi temi già esaurientemente trattati, interessa qui piuttosto ricostruire gli sviluppi di questo discorso e di questa ricerca pittorica negli ultimi anni: dai dipinti dove l’immagine era attraversata da un vento che creava un continuo movimento, sconvolta da turbini di pennellate, e dalle atmosfere grigio – brunastre dove si accendevano sprazzi di luce sulfurea, l’artista è passato successivamente a immagini più controllate e frenate. A spazi architettonici scanditi dall’alternarsi di luce e ombra.
Nel suo lavoro di oggi, rappresentato in mostra in modo significativo, si assiste ad un’ulteriore trasformazione, che sembra contenere in sé la possibilità di sviluppi rilevanti: liberatosi dal fascino ipnotico dell’immagine architettonica, l’artista si avventura nuovamente nel mondo del mistero, dell’inconscio, ma con una più raccolta interiorità. Nascono prospettive e spazi irreali, mentali; la luce, non più fatto esterno e quasi scenografico, si raccoglie dentro la pittura. Sulla tela si proiettano spazi dell’inconscio, come nel grande Interno diviso in due parti: da un lato un “magazzino della memoria”, un mondo oscuro dove si accumulano oggetti informi, dall’altro lo spazio illuminato da una luce mentale dove si manifestano presenze remote e familiari.
L’attrazione dell’artista si focalizza sempre più spesso sull’oggetto, sentito come presenza dotata di una forza evocatrice, o sembra addirittura calarsi dentro la materia, a scoprirne la pulsante vita segreta; l’immagine, in apparenza ferma e controllata, cela un movimento sotterraneo: i Sedimenti, materiali depositati dal tempo e dal continuo lavorio dell’inconscio, vengono indagati nella loro verità più profonda.
Non meno interessanti le trasformazioni che avvengono nella tavolozza dell’artista, che tende a raffreddarsi e impreziosirsi: predominano grigi madreperlacei, a volte iridescenti, bianchi splendenti, la pennellata si fa a volte quasi aggraziata; ma non si corre certo il rischio di cadere in un’eccessiva eleganza, troppo intenso è l’accento di verità e soprattutto troppo presente il senso della pittura come materia, una materia non così densa e pastosa come in passato, ma sempre sentita nella sua organicità e più che mai resa viva dalla luce che ha colto in sé.

(“Geografie oltre l’informale”, Milano, Permanente, Gennaio-Febbraio 1987)

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