1987
[…] La nuova figurazione di Ossola venne elaborando lungo gli anni 1960 una personalissima immagine fantastica e memoriale, organica e biologica (la biologia della metamorfosi della materia attraverso la dissoluzione e la rinascita in nuove forme) della degradazione della natura, dell’ambiente urbano, dei simboli della civiltà industriale e meccanica e della presenza / assenza dell’uomo.
Il successivo sviluppo negli anni 1970 e 1980 ha visto la crescente organizzazione di questo personalissimo “mondo” entro la fatiscente determinazione di una inquadratura spaziale – fra scenografia e schermo di uno dei tanti film estrapolanti un futuro urbano in disfacimento – i cui margini sono sempre erosi dall’ombra o da materiali indistinti e disfatti.
La consonanza, attiva e creativa, di Ossola in questi ultimi due decenni con gli sviluppi del linguaggio pittorico cosiddetto postmoderno (che in quanto tale identifica criticamente la “modernità” con le fredde certezze della cultura urbana industriale), consiste proprio in questa strutturazione dei fantasmi interiori, popolanti il suo mondo originariamente espressionista – informale, in una immagine di base ottica elaborata con l’ausilio dello strumento fotografico. Ma se poi esaminiamo, appuntati alle pareti del suo studio, questi materiali di lavoro (fotografie da lui stesso scattate, ritagli di illustrazioni giornalistiche) constatiamo, nella scelta dei materiali – soprattutto interni ed esterni di luoghi di lavoro artigianale e industriale abbandonati, con frantumi di strumenti e disfatte memorie fantasmatiche di una presenza attiva del lavoro umano; o immagini quotidiane di pena, di dolore, di “fatica di vivere” – e in un particolare “flou” della ripresa, sempre interpretativa e non oggettiva, il loro puro valore di verifica e di evocazione.
D’altra parte, e la concreta densa realtà espressiva dei quadri ne dà testimonianza, la sostanza di fondo dell’arte di Ossola non si esaurisce certo nella fatuità esteriore di un certo gusto – non arte – di espressionismo nichilistico oggi di moda in certe aree, specie tedesche: da una lato perché dai grumi e dalle ombre di questi interni ed esterni in disfacimento la calda luce che pervade e assorbe di sé i nuclei centrali sembra far pullulare una speranza di metamorfosi vitale; dall’altro perché questo immaginario pittorico, pienamente espressivo di un linguaggio contemporaneo, si appoggia orgogliosamente, non ad accademiche “citazioni” neoclassiche o neomanieristiche, ma ad una vitale comprensione di grandi modelli classici di pittoricismo barocco, dagli internisti fiamminghi del ‘600 a Rembrandt e Magnasco.
(Galleria Sorrenti, Novara, maggio – giugno 1987, Prefazione al catalogo)