1996
Raccontare un luogo è molto più che descriverlo, ma dipingerlo è ancora di più che raccontarlo – qualcosa come descriverlo, raccontarlo e sognarlo insieme, nel tempo brevissimo e incancellabile di un solo gesto, di un’unica emozione…
Non pretendo che ciò che ho appena scritto sia vero. È semplicemente quello che penso, che mi sembra non soltanto possibile, ma inconfutabile e quasi ovvio quando guardo o riguardo (e persino, ormai, quando ricordo) una delle opere che Giancarlo Ossola ha dedicato nel corso degli ultimi decenni al tema per lui sempre più centrale e oserei dire fatale degli “Interni”. Penso, ecco, che per descrivere un luogo basti averlo sotto gli occhi o averlo osservato abbastanza a lungo e con sufficiente attenzione, mentre per raccontarlo bisogna anche possederlo e appartenergli, aver sofferto e goduto delle sue metamorfosi, aver sentito sulla propria pelle il precipitare e sovrapporsi degli infiniti fotogrammi attraverso i quali il tempo, cineamatore distratto e implacabile, documenta secondo per secondo la lentissima agonia dello spazio.
Ma penso che sia solo dipingendolo, quel luogo, voglio dire dipingendolo come Ossola è capace di dipingerlo, che esso – interno e interno/esterno, domicilio abbandonato o fabbrica dismessa, deposito di oggetti degradati fino all’irriconoscibilità o ville di delizie abitata dai fantasmi di antiche, decorose catastrofi – diventa anche e davvero (per usare un’espressione coniata, a comprova dell’assoluta consapevolezza del suo procedere, dallo stesso artista) una “gabbia del profondo”. Come accade, appunto, nei sogni: ma con l’inestimabile vantaggio che se nei sogni tutte le coincidenze, le rifrazioni, gli sdoppiamenti tendono a sparire nell’istante in cui si manifestano e sono comunque consentiti e credibili soltanto finché vige la logica dell’inconscio, finché il risveglio non ci riconsegna, mani e piedi legati, a quella del pensiero razionale, qui – voglio dire qui negli interni, nelle “gabbie del profondo”, insomma nella pittura di Ossola – essi continuano invece a esistere e coesistere, a manifestarsi e a coincidere, mutati, da intermittenze e barlumi che erano, in segni durevolmente visibili e tangibili, in spessori, in materia.
Trasformare i sogni in segni: al di là dell’innocente calembour (innocente perché involontario o, nella peggiore delle ipotesi, preterintenzionale) sembra davvero di poterlo semplificare fino a questo punto, tanto limpida e perentoria è l’esigenza da cui scaturisce, il complesso percorso emozionale di cui questi dipinti sono nello stesso tempo, e senza alcuna contraddizione, il punto di partenza e il punto d’arrivo: e se la cosa è vera per ciascuno di essi è altrettanto vera, credo, per l’insieme che compongono, per il paesaggio – ma forse sarebbe più giusto dire l’agglomerato urbano/suburbano, la “città” – a cui danno vita e da cui prendono senso. Di metamorfosi in metamorfosi corre, non c’è dubbio, il filo inestricabile e indissolubile di una contiguità metaforica, come se ogni interno non fosse soltanto l’autoritratto in qualche misura automatico del proprio incessante apparire e dissolversi ma anche o soprattutto il diagramma di un movimento, di un passaggio, in altre parole come se ogni luogo di cui Ossola ci fornisce il rilievo o inventario fantastico fosse un luogo attraverso il quale si scopre o si abbandona un altro luogo.
Ho detto città e subito vorrei aggiungere, specificare: una città reale, certo, e persino storica; ma anche metafisica, anche invisibile, anche nascosta – alla Kafka, alla Kantor – negli abissi, nei labirinti, nelle “classi morte”, nella cave abbandonate o inesplorate della non storia. Ma attenzione: questa fase (certamente decisiva, come tutti i suoi esegeti più attenti sono stati concordi e tempestivi nel riconoscere) della ricerca di Ossola non offre solo la possibilità di una lettura sincronica e, se così si può dire, topografica, ma anche – e, forse, ancora più fruttuosamente – quella di una lettura diacronica. La contiguità non esclude la continuità, anzi la presuppone; la vicenda apparentemente immobile e senza tempo alla quale ogni singola immagine fa riferimento e, in un certo senso, “resiste” ha avuto uno sviluppo che non è davvero irrilevante conoscere e che la scelta di opere proposta qui dall’artista ci invoglia a seguire in tutto la sua ricchezza complessità di senso, vale a dire – se mi si consente una suggestione metodologica solo apparentemente paradossale – nel modo meno lineare possibile (il che non esclude, beninteso, che pur facendo il possibile per evitare un discorso di “periodi” da cui la storia di Ossola ha tutto il diritto, per la sua straordinaria coerenza e compattezza, d’essere esentata, quello che cercherò di suggerire possa finire con l’essere, sia pure incidentalmente, anche un percorso cronologico).
All’inizio, dunque, l’impressione è quella d’essere davanti a una possibilità, a una pura epifania dello spazio assai più che dentro uno spazio possibile; in altre parole, ciò che siamo invitati o comunque ammessi a riconoscere, secondo un rituale misteriosamente analogo ai modelli affettivi e drammaturgici dell’agnizione, è una “scena”, un teatrino mentale nel quale ciascuno di noi può o potrebbe sentirsi presente quasi con la stessa investitura di legittimità/illegittimità (ancora Kantor!) e le stesse aspettative fantastiche dell’autore, cioè semplicemente come titolare della facoltà di percepire le tre dimensioni che condizionano e garantiscono ogni esperienza corporea (compresa, non certo secondariamente, quella del sogno), e a popolare il quale compaiono – compaiono non una volta per tutte ma, se così si può dire, in una sorta di istantaneità perpetua – tracce, impronte materiche, ectoplasmi luminosi riconducibili non tanto a oggetti individuati quanto a classi o categorie di oggetti: una forma-sedia, una forma-tavolo o più sinteticamente “una” sedia, “un” tavolo e non “quella”sedia, “quel” tavolo ecc.
Da qui a dire che il viaggio di Ossola all’interno dell’internità si situa in prima istanza (il che, ripeto, può significare anche – ma non necessariamente e, soprattutto, non esclusivamente – in un primo tempo) nell’ambito di quella simmetria pura che, stando alle fondamentali indicazioni di Ignacio Matte Blanco, caratterizzano l’”altra” logica, la logica del sogno e dell’inconscio, il passo è così breve da sembrare in qualche modo ineluttabile; e se si può avere qualche riluttanza a compierlo è solo per non sovraccaricare di motivazioni teoriche o pseudoteoriche un’intuizione tipicamente poetica alla quale Ossola conferisce una concretezza, una fisicità assoluta e fulminea nel tempo non frazionabile né analizzabile impegnato dal suo gesto per trasformarla in immagine, in “pittura”.
Impossibile, in ogni caso, non accorgersi che nel momento stesso in cui evoca la prima delle sue “gabbie del profondo” (non importa quale, o forse importa moltissimo ma non a noi che stiamo inseguendo una vicenda interiore rispetto alla quale il prima e il dopo non sono, in fondo, che pure espedienti narrativi) Ossola rispetta in pieno – naturalmente, o così almeno credo – un principio basilare della bi-logica matteblanchiana, quello secondo il quale per il “pensiero” che domina le figurazione del sogno A può essere contemporaneamente identico a B e diverso da B: cosa tutt’altro che priva di conseguenze, come è facile intuire, per il fruitore (stavo per dire, lasciandomi inghiottire dalla metafora teatrale, per lo spettatore) che senza rendersene conto si trova immerso a sua volta – non diversamente, e per motivi sostanzialmente non diversi, dall’artista-testimone – nel flusso del non identificato e, dunque, dell’infinitamente identificabile.
Ma il momento o funzione del pensiero non razionale e dunque della logica simmetrica è seguito – non può non essere seguito, così come al sonno non può non seguire il risveglio – dal momento o funzione del pensiero razionale e dunque della logica asimmetrica, governata da quel principio di non-contraddizione (se A è diverso da B non può essere, contemporaneamente, identico a B) che ci hanno insegnato a scuola e che – finché siamo svegli – non possiamo fare a meno, per quanto ci sforziamo, di credere vero. E così anche per Ossola – voglio dire per il seguito, per la continuazione del viaggio di Ossola attraverso la contiguità-continuità dei suoi interni e il suo sentimento, la sua visione, la sua poetica dell’internità – viene il momento della asimmetria, ossia dell’individuazione: la possibilità puramente epifania dello spazio partorisce uno – un determinato – spazio possibile, il teatrino mentale di cui l’artista condivideva in qualche misura la titolarità con ciascuno di noi si trasforma nel suo teatro, il teatro nel quale si rappresenta il dramma della sua memoria; insomma, la forma-sedia diventa – insensibilmente, irresistibilmente – “quella” sedia…
Da questo punto in avanti (ma dove si situa questo punto, e quale sarà mai la direzione che corrisponda “storicamente” a quell’avanti?) gli interni di Ossola sono, e lo sono come da sempre, luoghi individuati, luoghi che hanno o potrebbero avere dei modelli nella realtà esteriore, che corrispondono o potrebbero corrispondere a indirizzi non immaginari; luoghi in cui lui, Ossola, o comunque qualcuno, potrebbe essere stato – visitatore legittimo o illegittimo, colpevole che torna sul luogo del delitto che altri, o forse nessuno, ha commesso – nel tempo delle responsabilità diurne, in carne ed ossa, da sveglio…
Ma è davvero così? A me sembra più ragionevole pensare che sia anche così. È vero, come ho scritto poco fa, che alla simmetria del sogno non può non non seguire l’asimmetria della veglia; ma è vero anche l’inverso e, soprattutto, è vero che né dall’una né dall’altra, né dalla logica del pensiero irrrazionale né da quella del pensiero razionale, si esce mai del tutto – e che la poesia, la pittura, insomma l’arte nascono appunto dall’intersecarsi e coesistere, dall’infinito e incredibilmente, indimostrabilmente concreto fluire, rovesciarsi, “dimostrarsi” dell’una nell’altra finché la vita non le separi.
E proprio questo succede, se non mi inganno, sia “prima” che “dopo”, sia quando la verità sembrava scaturire dai residui automatici, dalle secrezioni e proiezioni della memoria involontaria, sia ora che sembra prendere più umilmente, più accanitamente, più dolorosamente la forma stessa delle cose, proprio questo, dicevo, succede negli interni sognati o immaginati o veduti, ma in ogni caso e soprattutto raccontati, in ogni caso e soprattutto dipinti, da Giancarlo Ossola. Stanze, sempre, senza figure, o dove le figure si affollano a tal punto, a tal punto si sovrappongono e compenetrano da smateriarsi e cancellarsi a vicenda; domicilii, sempre, di esistenze senza più domicilio né esistenza, di vite vissute fino al lumicino, all’evanescenza, alla sparizione; depositi, sempre, delle miserabili e gloriose macerie del tempo, delle spoglie di ciò che a lungo e inutilmente e per sempre è stato. Non meno familiari, quando erano gremiti solo di memorie senza impronta e di impronte senza memoria, di lancinanti, preziose opacità o trasparenze, di sgorbi e grumi e rigurgiti di luce, alle ombre derelitte e fraterne che strisciano lungo i muri della nostra città; non meno familiari, adesso che oggetti riconoscibili fino all’esultanza o alle lacrime ne scandiscono il nitido vuoto azzurrino, ai fantasmi di luce che frastornano le nostre notti.
In una delle poesie più belle e più misteriose delle Fleurs du Mal, il sonetto che inaugura la sezione intitolata “La Mort”, Baudelaire descrive la camera da letto nella quale due amanti immaginano o progettano o semplicemente desiderano (la scelta fra i tre verbi è, inutile dirlo, impossibile) di morire insieme. A colpirmi di più, ogni volta che la leggo, non è lo squisito ma prevedibile bric-à-brac decadente (“strani fiori”, “divani profondi come tombe” ecc.) sul cui sfondo i due protagonisti proiettano il loro sogno funebre-erotico e nemmeno, forse, la vertiginosa metafora centrale – il trasformarsi dei loro cuori languenti o morenti in “grandi torce” che si riflettono, scambiandosi “un unico bagliore”, negli “specchi gemelli” dei rispettivi intelletti – quanto la desolata e al tempo stesso radiosa visione della terzina finale, con quell’Angelo che quando tutto sarà finito, quando il doppio proposito suicida avrà avuto in qualche modo attuazione e la stanza non sarà dunque, ormai, che un’impronta deserta, un vuoto, silenzioso deposito di tracce umane sul punto di trasformarsi in puri segni, in rovine, in “natura”, entrerà dalle porte socchiuse a rianimare con la sua presenza immateriale la materialità eternamente, eroicamente residuale degli “specchi offuscati” e delle “fiamme morte”.
Riuscirò mai a spiegare perché questa immagine al tempo stesso confortante e terribile mi è affiorata con insistenza alla memoria mentre mi occupavo (prima guardandoli e cercando di entrarci, di abitarci il più intimamente, il più clandestinamente possibile, poi scrivendone e dunque tentando di metabolizzarli in parole) degli interni di Ossola? Probabilmente no. Non ci sono né divani-tombe né fiori, non c’è niente di decadentisticamente morboso, di wagneriano, di tristano-e-isottesco nel purgatorio metropolitano che fa serbatoio inesauribile all’immaginazione poetica e pittorica di Ossola; e nessun angelo, credo, metterà mai piede o punta d’ala in nessuno dei suoi quadri.
Eppure… Eppure c’è qualcosa in quei tre versi – quell’insinuarsi anacronistico di uno sguardo dentro lo spazio blindato dell’irreparabile, del già consumato, quella visitazione postuma, quel tornare furtivo di chissà chi sul luogo del delitto di cui tutti (ma meno di tutti, forse, angelo o non angelo che sia, proprio che sente l’impulso irresistibile di tornare) siamo tutti in qualche modo colpevoli – qualcosa di affine o almeno di sottilmente compatibile, qualcosa, ecco, di non-estraneo, di non-straniero al modo in cui Ossola si pone nei confronti di ciò che ogni volta, dipingendo, inventa o inventaria, insomma alla sua presenza, alla sua posizione dentro i suoi interni, dentro le sue “gabbie del profondo”. E se cerco di andare un po’ oltre, di capire non tanto il perché di questa associazione quanto il confuso ma non effimero sentimento che se ne irradia, trovo – come si trova un lumino in fondo a un pozzo buio o un ago rilucente in un pagliaio – una parola inattesa, desueta, una parola quasi priva, ormai, di corso legale: pietà. Pietà dei morti che non vediamo, che non si vedono più, che sono volati via dalle finestre o dai camini lasciandoci delle loro sofferenze e del loro coraggio solo qualche traccia ancor umida, qualche segno atrocemente indelebile e leggero? Pietà delle cose che sono o sembrano ancora lì, che nonostante tutto si lasciano ancora vedere o almeno rivedere, almeno ricordare? Mi sembra quasi che il discorso sugli “Interni” di Ossola potrebbe ricominciare, se ne avessi la forza, da queste domande.
(“Interni 1977-1996”, galleria Credito Valtellinese, Palazzo Sertoli, Sondrio, dicembre 1996/gennaio 1997, Prefazione alla catalogo )