2016
«Anche il portato dell’erudizione architettonica ritorna
una cosa vista: gli ornamenti di bronzo sul marmo dei
capitelli, i mattoni rossi, il bugnato; tutto è rozzo e puerile,
ma, per illusione, urgente e come tangibile. E certi
toni circolano rossi, marrone, giallo, bruni, e bianchi,
macchiati direttamente del chiaroscuro: puzza di bruciaticcio
caravaggesco».
Roberto Longhi, Quesiti caravaggeschi, 1929
Per Giancarlo Ossola, lo spazio è uno stato mentale. È un luogo dello spirito dove si rapprendono tutte le tensioni e i drammi della coscienza. È una dimensione dell’esistenza parallela, una realtà virtuale dove l’anima vaga in cerca di ricordi cancellati e di identità perdute. Per Giancarlo Ossola, la pittura è una lenza. Veloce, inafferrabile, quasi violenta. Gettata con un movimento secco del polso nello spazio più profondo, per recuperare brandelli di memoria, ripescare dettagli, oggetti, spigoli affiorati da un abisso di narcosi e sospensione. A questo limbo silenzioso – una “lacuna del cuore”, come avrebbe detto l’amico Vittorio Sereni – Ossola ha dato forme codificate dall’esperienza umana, l’interno domestico, la fabbrica, l’ospedale, ambienti disabitati baciati da una valenza simbolica che ci riporta a tutta una letteratura dell’abbandono, da Henry James fino a Italo Calvino. Letto in questa prospettiva si spiega bene, nella sua ricerca, il rapporto esatto siglato fra spazio reale e spazio mentale, fra cronaca ed ermetismo, unico e vero banco di prova per ogni poeta capace di mantenere l’equilibrio fra quello che gli occhi vedono e quello che le materia cerebrale proietta. Reali sono allora le scale, le finestre, i tavoli, i bacili, i letti sfatti, le lampade che pendono al centro delle stanze, le cicche pestate sul pavimento. Mentali sono le percezioni: odore acre di polvere, riflessi abbacinanti sul metallo di una pensilina, scricchiolio sinistro di un carroponte, umidità fra le lenzuola che coprono vecchie poltrone di velluto liso. È tutto un film. Come scrisse Giovanni Raboni in un suo splendido testo del 1996: «raccontare un luogo è molto di più che descriverlo, ma dipingerlo è ancora di più che raccontarlo». E, infatti, Giancarlo Ossola ci ha spalancato davanti un mondo dentro il quale l’occhio si spinge ansioso di attraversare camere e cattedrali, hangar e corridoi, cercando uno sbocco, una via d’uscita, l’altro lato del tunnel, lo spazio che non c’è dietro la tela dipinta. Proprio in questa “corsa allo spazio” si individua la contemporaneità del suo pensiero, veicolato da un linguaggio tipico della tradizione, radicato nella scuola classica del più terrigno naturalismo lombardo, ma traghettato in una sfera concettuale laddove lo spazio del vissuto, gli umori dei luoghi, i confini dei domicili forzosi diventano l’alibi per sfondare una parete, abbattere un muro d’intonaco scrostato, bucare il soffitto con un raggio di sole improvviso, caduto a picco in un locale, come una falce, come la luce nella Vocazione di Caravaggio, magicamente commentata da Roberto Longhi nel suo saggio del 1952. «La luce che rade sotto il finestrone sospende nell’aria greve la mano di Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nella sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra alla puntata, addita sé stesso, quasi chiedesse “Vuoi me?” (e il viso scocca dall’angolo delle palpebre sbarrate il ciglio dell’ombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lucida della propria perplessità». Quanto sarà disposto a rischiare lo spettatore di Ossola, di fronte ai suoi opifici dismessi, pur di tuffarsi nell’ombra lucida della propria titubanza? Trascinato dentro, trasportato nel bel mezzo della scena («una scena per il tutto» diceva lui…), è disorientato – ma anche affascinato – dall’idea di recitare a soggetto. Un cortometraggio in 3D lo rende protagonista di un’azione sul palco aperto, mentre il sipario che separa la realtà dalla rappresentazione è spezzato. Fisica e metafisica non sono mai state così aderenti, vasi comunicanti di un processo osmotico. Non a caso, Ossola parlava di «metafore trasparenti del nostro vivere ed esistere». Inutile ricordare che egli visse, dopo gli anni della sua prima stagione pop, un recupero di istanze spazialiste, figlie dell’era cosmica, di quel decennio segnato dal miraggio del viaggio ultraterrestre, ansia di spazi immensi che, come categoria epistemologica, avevano una estensione tridimensionale (addirittura quadridimensionale, se vi si aggiunge la categoria del tempo), senza margini, senza confini. Orizzonti ignoti dove testare la propria finitudine. Orizzonti dove sia la luce che il tempo, a sentire Ossola, «svelano fessure dalle quali trapela qualcosa che prima era sfuggito, come un invito a perseguire il mistero delle cose da una diversa angolazione». Ma può davvero l’orizzonte celare una fessura? E da quella fessura lasciare penetrare la luce?
In Vuoto esterno, del 1972-73, il cielo sembra tagliato da uno stargate, una porta delle stelle. In Fuga dalla città, del 1977, lo skyline si apre come una scatola cinese. Nell’Hinterland del 1980, una scala, forse un traliccio sale verso l’alto, s’immerge in un cielo acido, denso di pioggia. La fessura è un raggio di sole in fonderia, una finestra sul cortile, persino una tela completamente bianca, un monocromo assoluto nell’atelier di Bacon, che agisce come uno squarcio sulla superficie. Vengono in mente i versi celebri de La spiaggia di Sereni: «Toppe di inesistenza, calce o cenere / Pronte a farsi movimento e luce». E questa “toppa” bianca nell’Atelier 8 è un motivo figurale che ha lo stesso, identico valore di un taglio di Fontana. «Passa l’infinito di lì, passa la luce» ripeteva il maestro dei “tagli”. Ossola ha fatto con la pittura quello che Fontana ha fatto col rasoio. Ha costruito nuove dimensioni. Ossessionato dall’idea di attraversare la materia – «verso ciò che sta dietro le apparenze» scriveva – ha in fondo raccolto la sfida eterna di tutto il Novecento: superare i limiti del quadro per fluttuare libero nell’etere.
Nella lunga catena ideale che collega Boccioni a Fontana, Giacometti a Klein, la ricerca di Ossola si pone in linea di continuità. Quando si legge, fra i suoi testi dallo slancio teorico straordinario «Gli oggetti si dilatano e si contraggono continuamente», è impossibile non ripensare agli oggetti pulsanti del futurismo, alle mani contratte della madre di Boccioni in Materia, nocciolo di tensioni pronte a esplodere. Impossibile non pensare alle Nature, agli asteroidi ancora caldi di fuoco di Fontana, agli uomini in cammino oltre gli argini di una strada di Giacometti, in Paris sans fine, “Parigi senza fine”, figure fluide nella città bagnata; o, ancora, ai corpi tinti di blu, carni lunari delle modelle di Klein, che si spalmavano sulle tele per dimostrare la creazione spontanea della forma. Nella mente di Ossola lo spazio si innalza e si disfa, si monta e si smonta nella visione mutante delle cose, come un volume geometrico sottoposto a mille diverse angolazioni. La fabbrica, la periferia, sono pretesti per sperimentare un metodo di osservazione della vita che consente allo sguardo di penetrare la realtà, come una sonda, e osservare le energie che si agitano nell’intimo. Non importa quanto lui si ritenesse erede della lezione informale. Ossola ha usato il lessico dell’informale per sperimentate una pittura di concetto, una indagine sullo spazio come luogo di sublimazione della verità tangibile. La pennellata densa, impastata di grigio cemento, di marrone bruciato, di bianco sordo come le nebbie della Bassa, ha preso a schiaffi le sue tele monumentali, torturata dall’idea di scavare, levare, togliere, ferire e dimostrare che, al di là del segno, ci fosse un baratro, una caduta libera, un salto nel vuoto. Vertigine allo stato puro. Chi ne soffre, si guardi bene dai suoi Interni del 1979. Sono profondi come diorami. In questo Giacometti e Bacon, con le loro gabbie (le famose “cages”), sono stati di grande ispirazione per Ossola nel momento in cui ha cominciato a issare impalcature fragili nelle sue stanze delle necessità, ponteggi a protezione degli “spazi marginali”, ma anche assi cartesiani per un sistema di riferimento. C’è qualcosa di logico nell’esigenza di contenere le energie in un cubo, tradita dai termini matematici che ha usato in certi scritti: «involucri di industrie, fasce intermedie, angoli inutilizzati». Un sistema di coordinate perfetto per introdurre una nota di rigore, una maglia elastica a cui aggrapparsi per non essere risucchiati dal precipizio. Scivola il pavimento su cui scivolano gli oggetti. Slittano le reti dei letti, i cavalletti, le piantane sulle piastrelle che sembrano spalmate di cera sciolta. Il pavimento è verticale, la scala orizzontale, le pareti oblique. Allucinante. Se Giacometti sigillava i suoi ritratti in cornici effimere, cristallizzava il suo atelier di rue Hippolyte-Maindron in una voliera di segni istintivi, profilava le sue figure sottili come ossi in telai immaginari, Ossola ha edificato armature, piccole celle vuote, dove solo la luce e la polvere sono prigioniere e dove ogni bagliore appare come un’epifania inattesa. Quella luce tutta lombarda e tutta seicentesca, che ha coltivato nell’ombra, nell’oscurità di un magazzino sprangato, si è insinuata piano sotto gli stipiti delle porte, fra le grate, i lucernari, gli spiragli nei vetri opachi delle finestre rotte, lacerando la scatola nera, inserendo nel rigore dell’architettura il germe della poesia, «collasso tragico e primordiale di luce ed ombra» scrisse Longhi parlando dei suoi amati pittori della realtà. Foppa, Bergognone, Lotto, Moretto, Savoldo, Moroni, i “primitivi” del Caravaggio, ma anche i Campi, Figino, Peterzano: eccoli ergersi insieme, con la loro statura monumentale, davanti agli occhi di Ossola, che gioca coi neon come loro giocavano con i lumi delle candele. L’effetto è lo stesso. Perché la luce, nel colore che arde, piega le pareti quasi fossero di burro. Il segno è una scintilla, si attizza, si frantuma, si polverizza, si ricompone, puzza di bruciato caravaggesco. La famosa camera oscura che Caravaggio aveva sperimentato, tinteggiando di pece le pareti del suo tugurio, per analizzare gli esiti di un «lume unito che venga dall’alto senza riflessi», diventa per Ossola una camera prospettica in cui la costruzione sussulta al ritmo di un respiro asmatico. Il dolore è lancinante come le ferite di un sole malato nella stanza tetra. La geometria rantola nel buio, prigioniera a sua volta dello sguardo solenne quest’ultimo lombardo, sedotto dall’inquietudine dello spazio e della materia che si inzuppa di luce.
(Palazzo della Permanente, Milano, 4 – 22 ottobre 2016, Prefazione al catalogo)