1986
Per lo storico dell’arte il gioco delle citazioni è quasi passaggio obbligato: Van Gogh del tempo del Borinage; Giacometti nel momento della sua maturità, quando i grigi affilano i contorni e le forme sembrano sinopie affioranti dal profondo della tela: Bacon quando scopre l’orrore della morte sui volti dei suoi personaggi serrati nelle poltrone – carcere, negli antri – recinto, nelle stanze di ossessive memorie. Eppure non basta questo per spiegare Ossola. Elena Pontiggia, in una bella introduzione in catalogo, parla del suo mondo lombardo, e proprio qui sta il problema. Proviamo ora a capire meglio queste pitture che muovono, molte volte, dalla fotografia. Ossola sceglie fabbriche abbandonate, dove le tracce del lavoro sono segno di rovina, dove non si affacciano oggetti ma frammenti, non forme ma accenni, suggestioni di forme, dove sono assenti gli uomini, anche se sappiamo che un tempo c’è stato un loro passaggio. Ossola, per tagliare certi spazi, per inventare gli scorci, gli “sfondati” delle luci come di scena, deve pensare al taglio cinematografico, usare il “grandangolo”, “Doppio interno” (1985), “Deposito” (1985), “Interno – oggetti” (1984) vivono in questa dimensione, che è di certo documento sulle fabbriche e sulla loro presenza da Shezen a Basilico, che più di tanti altri hanno scoperto un genere, ritrovato una dimensione narrativa a questi edifici ai margini della città, abbastanza lontani dalla storia da sfilare sotto il bordo dell’orizzonte.
Eppure c’è una storia della periferia che è stata protagonista della nostra cultura, legata alla pittura “sociale”, quella futuristica da Boccioni a Carrà in poi o quella degli anni venti e oltre, che comincia col grande Mario Sironi. Ma dentro i dipinti di Ossola leggi altro, e soprattutto una descrizione analitica che ha connessioni evidenti. Narratori di periferia Milano ne ha avuti, alcuni particolarmente vivi tra anni Cinquanta e Sessanta: pittori nati nel fuoco del dibattito sul realismo, ma toccati dall’informale, pittori in bilico, pittori sottili, a volte angosciosi, altre affascinanti, come Ferroni o come Banchieri, il primo autore di certi aspri ritratti che affiorano alla memoria; l’altro che sa descrivere lo spazio della città quando finisce, il filo degli orizzonti segnati dalla ripetizione dei muri, periferie polverose e senza luce.
Dentro questa pittura nasce Ossola, ma forse non è tutta qui la sua storia, non abbiamo ancora scoperto il centro della sua “memoria”. Proviamo allora non più col metodo delle radici e delle affinità elettive, ma con l’altro, della contrapposizione. Ci sono quadri di Ossola dove il titolo allude alla memoria, alla durata: “Interno (depositi della memoria)” (1986), “Deposito” (1985), “Interno – sedimenti” (1985) raccontano tutti la stessa dimensione, in apparenza uno spazio con frammenti, oggetti, in effetti pittura del trapassare del tempo sulle cose. Non tocchiamo la realtà, sembra dire Ossola, essa ci sfugge, appare come segno di fine, come segno di morte. E questa “morale” del negativo, non ha spazio, veramente, nella cultura lombarda, non è di Gola e neppure di altri artisti di fine secolo, il tempo nel quale possiamo trovare i più ovvi riferimenti formali per Ossola.
Semmai questa dimensione del tempo angosciosamente concluso la scopriamo nella cultura germanica postimpressionista che ha tanto insegnato a troppi e che viene sempre poco riconosciuta: penso a Max Slevogt come a Lovis Corinth e al loro senso della fine che trasforma la felicità della scoperta del mondo impressionista in un’estasi di morte. (…) C’è un dipinto di Ossola, “Letto – oggetti” (1985), che fa capire quanto il pittore sia lontano da questo universo del positivo, e dalla sua tradizione pittorica: il tema è quello di tanti pezzi impressionisti e ulteriori, qui la stanza di Van Gogh, gli interni di Vuillard e di tanti altri sono lontani. C’è il disfacimento delle forme e dentro la carica di un passato e delle sue memorie, una luce giallastra che disfa le bottiglie e il bicchiere sul comodino, una luce di alba e di cattivi risvegli, per questo il quadro diventa il test di un sogno, o di un incubo. Così Ossola, pittore raffinato, reinventa il nome della pittura germanica di fine secolo e degli inizi del nostro subito prima dell’età “Jugend” e lo carica delle angosce di tutti coloro che narrano il “negativo” nella pittura. Insomma, Ossola non è “lombardo”, ma un germanico di elezione.
(“Panorama”, 20 Aprile 1986)